fotografia di
Maurizio Leoni
Se fossi più colto di quello che veramente sono vi stupirei
con un dotto trattato sul “Terzo Paesaggio” da lasciarvi tutti a bocca
spalancata.
Impegnandomi forse ne avrei anche le capacità, ma purtroppo
non sono né un geografo, né un agronomo, né un botanico, né un ecologo e forse
nemmeno un fotografo, anzi direi che sono un essere sufficientemente ignorante
che per imparare mi tocca scrivere post su questo blog.
Senza contare inoltre che i miei interessi non seguono un
andamento lineare ma si muovono a caso lungo strani percorsi a zig-zag, come i
ponti di alcuni giardini cinesi, attraverso i quali, per questa loro bizzarria
geometrica, gli spiriti maligni non possono passare.
Devo ammettere però che l’argomento mi affascina parecchio e
non da oggi, da prima di quando due anni fa acquistai il prezioso libricino dal
titolo (nella versione italiana) “Manifesto del terzo paesaggio” di Gilles
Clément edito da Quodlibet (2005) ISBN 88-7462-048-9.
Giunti a questo punto, dobbiamo innanzitutto cercare di dare
risposta ad alcune semplici domande, chi è Gilles Clément, cos’è il “Terzo
paesaggio”, quali fonti di ispirazione o implicazioni culturali potrebbe
comportare quanto sopra per chi fotografa.
Cercando di rispondere alla prima domanda sulla persona di
Gilles Clément, da wikipedia apprendiamo che
questo signore (1943) è uno scrittore, entomologo, architetto
del paesaggio e ingegnere agronomo francese.
È insegnante all'École nationale du
paysage di Versailles.
Paesaggista tra i più noti e influenti d’Europa, è il
teorizzatore del giardino planetario, del giardino in
movimento e del concetto di terzo paesaggio.
Ha all'attivo numerosi saggi e romanzi.
Ha realizzato diversi parchi e giardini, sia pubblici che
privati.
Tra le maggiori opere i giardini de La
Défense e il parco André Citroën (13 ettari sulle rive
della Senna nei terreni che appartenevano all'omonima fabbrica
automobilistica) entrambi a Parigi, e il
parco Matisse a Lilla.
Per rispondere alla seconda domanda circa la definizione di
“Terzo paesaggio”, dal sito della casa editrice Quodlibet estrapoliamo quanto segue (a cura di Filippo De Pieri):
“Manifesto del Terzo paesaggio” è il primo libro
tradotto in italiano di uno tra i più noti paesaggisti europei. Con
l’espressione “Terzo paesaggio”, Gilles Clément indica tutti i “luoghi
abbandonati dall’uomo”: i parchi e le riserve naturali, le grandi aree
disabitate del pianeta, ma anche spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili:
le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al
centro di un’aiuola spartitraffico… Sono spazi diversi per forma, dimensione e
statuto, accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, ma che presi nel
loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica.
Questo piccolo libro ne mostra i meccanismi evolutivi, le connessioni
reciproche, l’importanza per il futuro del pianeta. È un’opera di grande densità
teorica, che apre un campo di riflessione anche ad implicazioni politiche.
Ma la cosa che più ci interessa è certamente rispondere alla
terza domanda e cioè su quali fonti di ispirazione o implicazioni culturali potrebbe
comportare il concetto di “Terzo paesaggio” per chi fotografa.
A tale proposito facciamo riferimento ad una mostra e ad un
libro “Terzo Paesaggio – Fotografia Italiana Oggi” con opere di Luca Androni,
Andrea Galvani, Armida Gandini, Tancredi Mangano, Maurizio Montagna, Moira
Ricci, Francesca Rivetti, Alessandro Santini, Marco Signorini, Alessandra
Spranzi, Richard Sympson, (XXIII edizione premio nazionale arti visive città di
Gallarate) 2009 Damiani Editore Bologna, ISBN 978-88-6208-095-8.
Nella presentazione di Emma Zanella “Territori per la
diversità” a pag. 59 si evince che lo sguardo degli artisti è rivolto a “situazioni
marginali, nascoste, apparentemente poco visibili…”.
Qui sta il nocciolo della questione forse non ancora del
tutto analizzato e che potrebbe interessare i fotografi di paesaggio in genere.
Si tratterebbe di esplorare quelle porzioni di territorio
ignorate e dimenticate dall’uomo dove la natura lentamente si riappropria di
luoghi apparentemente invisibili ai nostri occhi disattenti o troppo occupati
in sguardi omologati e male indirizzati da chi manipola il nostro vedere,
sempre più attratto dai piccoli schermi retro illuminati dei nostri cellulari o
tablet, da cui non distogliamo mai lo sguardo, nemmeno quando guidiamo
l’automobile.
Invece a volte converrebbe essere come ci ha insegnato Italo
Calvino nel suo Marcovaldo (pubblicato nel 1963) “Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di
città: cartelli, semafori, vetrine, insegne Luminose, manifesti, per studiati
che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva
scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un
ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non
c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di
fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse
oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del
suo animo, e le miserie della sua esistenza”.
… e della nostra aggiungo io.
Ulteriori approfondimenti su http://paesaggimutanti.it/node/887
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